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27 aprile 2002
 
Reticoli (2)

Usciamo di casa perché l'ambiente è troppo inquinato da residui emozionali e in queste condizioni le rilevazioni sul reticolo elettromagnetico non sono attendibili. Ci spostiamo all'aperto, in una piazza o in un parco cittadino, per studiare il comportamento degli umani presenti.
Innanzitutto facciamo in modo da neutralizzare eventuali elementi perturbanti. Le automobili dovranno essere tenute a distanza sufficiente, la copertura dei telefonini dovrà essere uniforme per impedire l'ammassarsi degli individui dove c'è più "campo".
Osserviamo la scena dall'alto di un campanile. Quasi certamente noteremo che le persone si soffermano più numerose in certe zone ed evitano la sosta in altre. Probabilmente la disposizione delle formichine laggiù sotto non ricorda la forma di un reticolo, ma evidenzia la netta preferenza per zone specifiche. Qual è la causa?
Lo scettico potrebbe enumerare diversi motivi: la vicinanza al caffè più figo, l'ombra d'estate e la posizione solatìa d'inverno, la presenza di panchine o scalinate, l'avvenenza della commessa di "Nonsolomoda".... tuttavia scommeterei la testa del mio commercialista che l'identico comportamento potrebbe essere osservato in una prateria alpina o in un deserto salato.
C'è qualcosa d'inspiegabile secondo i comuni criteri, insomma. Un istinto primitivo? una percezione extrasensoriale del reticolo ettromagnetico?
Linko un'immagine del mio archivio mnemonico.
Sono un bambino e osservo un anziano corpulento che taglia un rametto da un albero, ne ricava una forcella, la impugna con tutte e due le mani e comincia a percorrere un campo d'erba medica. Ogni tanto si sofferma, ritorna sui suoi passi, cambia direzione. Infine si blocca in un punto: la forcella vibra, s'inclina verso il basso attratta da una forza irresistibile. L'uomo dice: "Qui!"
Dopo due giorni di lavoro la trivella trova l'acqua, a 50 metri di profondità. Quel pozzo c'è ancora.




24 aprile 2002

 
Reticoli (1)

Pare che nell'antichità i luoghi da destinare all'edificazione fossero scelti con cura e che si prendessero in considerazione molti fattori: si prediligevano le aree dove gli uccelli si posavano più di frequente, si scartavano quelle in cui alberi contorti o sofferenti sembravano indicare la presenza di un qualche influsso negativo e così via. In epoca moderna si è supposta l'esistenza di un reticolo magnetico capace di agire positivamente sugli esseri viventi in certe zone o, al contrario, di comprometterne salute fisica e mentale in altre (specialmente in corrispondenza di perturbazioni dovute a corsi d'acqua sotterranei o materiali da costruzione inadeguati).

Non so. Di sicuro il connubio tra antiche dottrine e moderna indagine scientifica è affascinante: immagino aruspici e bioarchitetti che conversano amabilmente misurando a grandi passi la superficie terrestre, impugnano con la stessa dimestichezza la forcella da rabdomante e il teodolite, confrontano i segnali di sofisticati apparecchi elettronici con i responsi tratti dalle interiora d'agnello.
Pittoresco... ma che ci sarà di vero?
Butto là un po' di considerazioni in ordine sparso.


A quasi tutti succede di provare profonda avversione per un luogo o una certa abitazione. Spesso il motivo è da ricercare nei ricordi spiacevoli che questi ambienti (o certi loro particolari) evocano in noi; altre volte il disagio che proviamo sembra totalmente immotivato.
E' forse il perfido reticolo che si fa sentire? Mi sembra più realistico catalogare gli influssi magnetici come uno tra gli innumerevoli stimoli che percepiamo ed elaboriamo in ogni attimo della nostra esistenza.
Difficilmente ci sentiremo a nostro agio in una corsia d'ospedale, in una camera mortuaria o nel parlatorio di un carcere, qualunque sia la loro posizione rispetto al reticolo. Casomai è da sottolineare il sadismo di chi progetta questi ambienti in modo da peggiorare l'umore di chi vi soggiorna, presumibilmente già abbastanza inguaiato. Si potrebbe fare qualcosa di meglio. Ho partecipato alla ristrutturazione di un forno crematorio che, grazie al piglio leggero e sdrammatizzante dell'architetto, non è risultato per niente tetro (nei limiti: declinai con fermezza l'invito ad assistere all'"infornata" d'inaugurazione).

Il discorso si fa ancora più complesso quando si esaminano le abitazioni vere e proprie, perché gli elementi che possono modificare la nostra percezione sono moltissimi: l'esposizione, la luminosità, la rumorosità, l'umidità, gli odori predominanti, la personalità degli abitanti, la qualità del caffè, la pulizia della tazzina...
Ho visto case che voi umani non potete neanche immaginare. Case fredde e inospitali nonostante i termosifoni tropicali, case soffocate dal mobilio incombente, povere a dispetto dello sfarzo. Ho visto case repellenti trasformarsi come per magia, diventare accoglienti e piacevoli solo per il cambio degli occupanti. Ho visto lo spazio abitabile dilatarsi per un sorriso, la prospettiva infrangersi intorno a una bambina che volteggia sull'altalena appesa al soffitto (sempre più in alto sempre più in alto...)




20 aprile 2002

 
Manuale pratico dell'artigiano edile

Introduzione


I beni più preziosi dell'artigiano sono una buona reputazione e l'esperienza.
Mentre si può ovviare ad una cattiva reputazione trasferendo la propria attività di qualche decina di km, nulla può sostituire l'esperienza (intesa come somma degli errori commessi).
Cercherò di fissare alcune regole per l'artigiano avveduto e ricorrerò alla collaborazione di alcuni apprendisti immaginari, selezionati a scopo didattico:
Apprendista pelandrone - Niente da aggiungere
Apprendista standard - Senza infamia e senza lode, lavora lo stretto necessario, ha una personalità paragonabile a quella di un armadillo, generalmente è attratto più dalla tabaccaia di fronte che dalle tue considerazioni profonde (questo ti ferisce un po' nell'orgoglio e influenza pesantemente il tuo giudizio sulle nuove generazioni).
Apprendista Super - E' attento, entusiasta, bramoso di imparare i trucchi del mestiere, non conosce orari, apprezza le tue spiritosaggini più sottili. Riversi in lui tutto il tuo sapere perché 1) ne è degno 2) sei un coglione: il tuo pupillo dopo breve tempo si mette in proprio e ti frega pure qualche cliente.

Capitolo I
In una banca o in un ufficio pubblico, organizza il lavoro in maniera illogica


Contrariamente a un pregiudizio diffuso, all'interno di banche ed uffici pubblici si possono rinvenire talvolta esemplari di lavoratore indefesso. Solitamente questi individui sono talmente presi dai loro affari da non creare problemi e lo stesso dicasi per gli impiegati assenteisti o latitanti (per definizione).
All'interno di questi ecosistemi al neon l'avversario più temibile è senza dubbio il vice-direttore, essere dotato di un'altissima considerazione di sé, buon livello di frustrazione e sfera di competenza incerta.
Il vice-direttore (o la segretaria, o il bidello) DEVE dimostrare/rsi di detenere un qualche potere, nonché di possedere la capacità di prendere decisioni sensate e lungimiranti.
Evita di scontrarti col vice-direttore perché ne pagherai le conseguenze, evita di adeguarti alle sue richieste senza replicare perché passerai per incompetente ("ci ero arrivato io, col buon senso!").

Esempio pratico
Il lavoro consiste nella manutenzione di una tromba scala.
Io- Scarica il materiale e cominciamo dal pianterreno
Apprendista standard- OK capo
Io- Smettila di chiamarmi capo
Appr.- OK (la dotta citazione di Piperita Patty passa inosservata)

Io- Scarichiamo il materiale e cominciamo dal pianterreno.
Apprendista Super- Non sarebbe meglio cominciare dall'ultimo piano come mi hai sempre insegnato?
Io- Se cominciamo da lì ci toccherà riportare tutto in basso. Fa' come ti dico e vedrai.
Appr.- OK

Mezz'ora dopo...
Vice-direttore- Sarebbe meglio cominciare i lavori dall'alto...
IO- Ma non è lo stesso? Abbiamo tutto qui adesso...
Vice- Mi dispiace, questioni organizzative interne.
IO- Vabbe' (strizzo l'occhio all'apprendista che mi guarda ammirato, quel fetente)




19 aprile 2002

 
Ieri, mentre già pregustavo doccia e passeggiata serale, il refrain di un incubo. Vieni a vedere il telegiornale, un aereo contro un grattacielo a Milano.
Non è stato quello che abbiamo temuto fosse. Solo un promemoria: siamo tutti sotto tiro.



17 aprile 2002

 
Magari è solo una mia impressione, però mi sembra che nel dibattito sull'immigrazione in Italia manchi qualche elemento importante. Anche coloro che sono favorevoli all'ingresso degli extracomunitari nel nostro Paese si limitano ad elencare posti di lavoro vacanti, esigenze previdenziali, calo demografico... numeri, insomma. Mai che si parli di uomini. Uomini e donne che portano idee, suoni, colori, odori diversi.
Senza dover affrontare controlli doganali ed animatori alpitour abbiamo la fortuna di poter venire in contatto con popoli esotici e confrontare la nostra visione del mondo con la loro. E' una ricchezza di cui dovremmo affrettarci a godere prima che la grande macchina tritatutto occidentale assorba ed omologhi tutto, prima che questi apporti culturali facciano lo stesso effetto di una poltrona "etnica" in un bilocale di Cinisello Balsamo (a proposito... che dire dei porta-CD etnici? ok meglio non dire niente).
Tra le cose che gli immigrati portano con sé dai loro Paesi ci sono concezioni diverse della casa e dell'abitare. Ibra è venuto dal Senegal per fare il muratore e qualche volta sono stato a casa sua.
La prima cosa che noti è che la casa non è vissuta come rifugio ma come spazio sociale. Certe sere più che un'abitazione sembra una stazione ferroviaria: un viavai continuo di uomini, donne e bambini che entrano, salutano, vanno "di là", chiaccherano a velocità supersonica, ascoltano radio-stereo-tv-telefono, appaiono da "di là" (quanto cavolo è grande di là?), si accoccolano in cerchio per terra e attingono il cibo dalla stessa grossa ciotola, salutano e se ne vanno. Lo spazio sembra espandersi, non ci si sente mai a disagio. Difficile capire chi sia il padrone di casa: uno qualunque dei presenti apre la porta, fa accomodare, conversa. Difficile anche identificare i genitori dei singoli bambini, che sono rimproverati o coccolati da tutti con la massima natutalezza.
E' qualcosa di più dell'ospitalità come la intendiamo noi, perché in fondo l'ospitalità crea rigide barriere di doveri, diritti e convenzioni: è condivisione di uno spazio, puro piacere dello stare insieme.
Per quel che ho potuto capire, un senegalese solo in casa è un senegalese triste.
Vogliamo rinunciare a tutto questo?

Che poi invece l'Italia è permeabilissima ad altri influssi e uno rischia di ridursi a cimelio solo perché è nato nel secolo scorso e in provincia...

Esempio di dialogo interetnico intranazionale
Time: un paio d'anni fa - Location: ufficio di multinazionale, una delle sedi italiane
IO- Buongiorno
LEI- Buongiorno, si accomodi (LEI è una "Plant Purchases Leader", proprio così, papal papal)
IO- Sono venuto per quel sopralluogo
LEI- Il responsabile di settore oggi non c'è
IO- No?! (ma porcamiseria perché non dò mai un colpo di telefono PRIMA? mi costa tanto?) Mi può accompagnare qualcun altro, allora
LEI- Non è possibile, qui ognuno ha un'area di responsabilità precisa
IO- Ah! (continuo a fissare il poster incorniciato che le sta alle spalle: un'aquila di quelle americane con la testa bianca, sotto c'è scritto OUR MISSION, più sotto ancora un sacco di roba che per fortuna non riesco a leggere)
IO- Vuol dire che torno domattina, a una cert'ora
LEI- A una cert'ora? (il suo sguardo guizza verso il mio polso sinistro, da sempre sprovvisto di qualsiasi meccanismo marcatempo)
IO- E' un modo di dire di quaggiù: ci vediamo a una cert'ora, partiamo a una cert'ora...
LEI- E come fate a sapere qual è, quell'ora?
IO- Intuito
LEI- Capisco. Facciamo alle 9,30?
IO- Va bene. 9,30
LEI- Mi lasci il numero del cellulare, comunque
IO- 0368...
LEI- E' un TACS? (incredula)
IO- Sì, non ho mai tempo per andare a cambiarlo (mento)
LEI- Capisco
IO- Be', allora arrivederci...
LEI- Un'ultima cosa. Lei continua a non accludere ai documenti la dichiarazione per il millennium bug
IO- Come sa (sento che mi viene da ridere) io qui faccio semplice manutenzione: chiudere buchi, aprire buchi, intonaco, verniciare... cose del genere. Niente che possa essere influenzato negativamente dal millennium bug, no?! (largo sorriso, oddio adesso scoppio a ridere)
LEI- (gelida) La dichiarazione fa parte della procedura standard
IO- Capisco. Arrivederci.
(La dichiarazione per il millennium bug te la sogni. It's not MY mission, baby. )



13 aprile 2002

 
I telegiornali traboccano di immagini drammatiche provenienti da Israele e dai Territori palestinesi. Le emozioni che proviamo sono comuni e condivise (orrore, indignazione, sgomento) ma anche personali, filtrate dalla sensibilità e dalle deformazioni professionali di ognuno. Davanti alla tv il medico elabora referti involontari per i feriti, il militare è attratto da armi ed uniformi, il negoziante osserva con più attenzione di altri la devastazione di banchi e vetrine. A me capita di soffermarmi sulla scenografia urbana della guerra e sui particolari delle costruzioni sventrate.
Niente può mostrare meglio delle case palestinesi la precarietà dell'esistenza e lo sradicamento culturale di un popolo. Allo stesso tempo, niente distingue queste anonime scatole di cemento da quelle che spuntano nelle periferie di Buenos Aires, Salerno, Kabul. E sono soltanto i tratti somatici degli abitanti ad identificare geograficamente le baraccopoli, perché altrimenti potremmo collocarle indifferentemente a Nairobi o a Roma, a Città del Messico come a Bangkok...

Nota: questo è un esempio di globalizzazione blogalizzata





11 aprile 2002

 
Pisa, per esempio...
Difficile parlarne. Non ha le maníe di grandezza fiorentine, lo squallore pieno d'umanità di Livorno, la coerenza mummificata di Lucca.
Pisa esibisce sfrontata bellezza e cicatrici, virtuosismi di marmo e bassezze sconfortanti.

Le voragini dei bombardamenti furono colmate con quel che capitava: palazzi tirati su con gli stessi criteri che spinsero tanti contadini a buttare i vecchi mobili per riempire la casa di fòrmica e compensato.
Ricostruire la città esattamente com'era prima della guerra sarebbe stato assurdo, però quando vedo certe facciate cementoarmate del Lungarno mi si stringe lo stomaco. Esattamente come mi capita di fronte ai prodotti della successiva smania restaurativa, quando tutto doveva essere riportato "a vista" e nel suo "aspetto originale". Che di originale non ha nulla perché, vedi, quell'arco lì lo fecero soltanto per sostenere il muro sopra la porta e se avessero avuto a disposizione una grossa, volgare putrella di ferro se ne sarebbero strafregati delle tue esigenze estetiche e... vedi queste scanalature scavate a forza di scalpello nella pietra? (QUI! dove guardi?!?) pensi che abbiano faticato tanto perché così è più carino oppure volevano far aderire meglio l'intonaco? (l'interlocutore immaginario è un architetto sui generis, mi ascolta mogio mogio e annuisce, poco convinto e molto immaginario).
Il simbolo di questa scellerata ossessione è Palazzo Lanfranchi; la facciata scarnificata grida vendetta sul Lungarno di Mezzogiorno, le cornici e le modanature seicentesche(?) galleggiano irreali sulla superficie di mattoni "a vista".
Sembrerebbe che i pisani ad un certo punto della loro storia abbiano perso gusto e creatività. Se così fosse sarebbero dolori, perché i pisani sono tosti. Apparentemente la città è viva e cosmopolita: il turismo, l'Università e le caserme popolano Pisa di un'umanità varia e stimolante. Invece questi flussi scorrono su piani separati rispetto allo zoccolo duro cittadino, indifferente e un po' scostante.
Ma Pisa è bella. Le perdoni tutto quando esci dai tanfi di un vicolo e ti siedi al sole in Piazza dei Cavalieri, davanti alla Scuola Normale che basta guardarla per sentirti un sapiente. Quando scalci il tappeto di foglie secche in Piazza Santa Caterina. Quando sbirci da un cancello e lì, in mezzo alla città, c'è un angolo intatto di campagna ottocentesca completo di orto curatissimo, viottolo sterrato e vecchietto che zappetta in panciotto e cappello di paglia.




06 aprile 2002

 
Abitare è umano. Gli uccelli hanno dei nidi, il bestiame ha delle stalle, i carri stanno nelle rimesse e le automobili in garage.Solo gli esseri umani abitano. Abitare è un'arte. Ogni ragno nasce con l'impulso a tessere una particolare tela, caratteristica della sua specie. Come tutti gli animali, i ragni sono programmati dai loro geni. L'essere umano è il solo animale che è anche un artista e l'arte di abitare fa parte dell'arte di vivere. Una casa non è né un nido né un garage.

da "Nello specchio del passato" di Ivan Illich

 
Perché una delle cose più belle e più brutte di questo mestiere è lo spazio libero concesso al rimuginio del cervello. Ci sono giorni in cui ti basta il 10-15% della tua limitata capacità mentale per andare avanti tranquillamente col lavoro. Un minimo di attenzione per non farsi male, un tantinello di accortezza per non combinare boiate, un pizzico d'ispirazione per fischiettare una canzone in tono e non occorre altro. Le mani ripetono gesti abituali, gli occhi controllano un minimo e l'hard-disk interiore gira senza controllo.
Puoi scandagliare la memoria alla ricerca della puntata 8587 della tua telenovela personalissima, inventare una bischerata per far ridere quello che ti lavora accanto, pensare a cosa scrivere nel blog, progettare un mondo nuovo e via e via e via. Questo se le cose stanno andando bene, altrimenti puoi torturarti per ore con i tuoi casini, in tutta comodità.
Può succedere che un pomeriggio di settembre sei sopra un'impalcatura e qualcuno si affaccia dalla finestra e ti dice un aereo è cascato sulle Torri Gemelle venite a vedere il telegiornale e tu scavalchi il davanzale e vedi sullo schermo della tv quella che credi una ricostruzione digitale e pensi cavolo come hanno fatto presto sembra proprio vera e gli altri nella stanza chiaccherano e non ti fanno capire nulla e poi vedi un altro aereo che s'infila nella seconda torre ed esplode e dici non è possibile e poi torni fuori a lavorare e gli altri dopo poco riprendono a chiaccherare dei fatti loro e le tue mani si muovono come al solito e le gambe seguono il ritmo e dentro la testa ti scoppia qualcosa che urla cosa sto facendo? COSA STO FACENDO?




03 aprile 2002

 
Poca voglia di scrivere, poca voglia di ridere. Succede quando, come in questi giorni, un ingranaggio non trascurabile del cervello cigola inceppato sopra un pensiero fisso. Un pensiero che è Palestina, oggi.
E' stupido, lo so: questa Quaresima della mente non serve proprio a nulla. Un po' come quand'ero piccolo e si teneva la tv spenta per qualche giorno per la morte di un parente. Ma tant'è.






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